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Alice Project: a scuola di felicità e decrescita. Recensione di Antonio Vigilante

Nel documento intitolato un po’ pomposamente La Buona Scuola, che contiene il piano di riforma della scuola dell’attuale governo, si legge che occorre una scuola «che sviluppi nei ragazzi la curiosità per il mondo e il pensiero critico» e che «stimoli la loro creatività e li incoraggi a fare cose con le proprie mani nell’era digitale». Ottimo. Ma a quale scopo? Quale è il fine della buona scuola? Bisogna investire sulla scuola perché essa, si legge, è «la leva più efficace per tornare a crescere». Parole che ai più sembreranno di assoluto buon senso; parole che si possono leggere nei documenti della scuola elaborati dai governi degli ultimi decenni. Eppure sono parole che hanno in realtà un carattere ideologico. C’è dietro quelle parole una concezione dell’economia e una concezione dei rapporti tra economia ed educazione. Esprimono l’ideologia della crescita illimitata, propria del capitalismo, e l’idea che l’educazione debba essere sottomessa alle esigenze del sistema economico. Entrambe le cose possono essere messe in discussione. Contro l’ideologia della crescita c’è il progetto della decrescita; contro l’educazione asservita al capitalismo si leva la voce di quanti ritengono che educazione autentica sia la formazione dell’individuo in vista della felicità sua e della comunità, non della crescita economica (una crescita che, come ormai sappiamo bene, non significa affatto felicità né vero benessere).

Tra queste voci un ruolo di primo piano va riconosciuto a Valentino Giacomin, di cui questo libro ricostruisce il pensiero e l’esperienza pedagogica, ancora quasi del tutto ignorati in Italia. Giacomin comincia come maestro elementare nella provincia di Treviso, negli anni Settanta, dove constata subito i problemi della scuola tradizionale: disattenzione, irrequietezza degli studenti, scarsa efficacia dell’insegnamento. In seguito ad un ricovero in ospedale comincia una ricerca interiore che lo porta ad approfondire il pensiero orientale. La sua maturazione spirituale gli consente di cogliere anche il limite di una educazione scolastica centrata tutta sull’aspetto culturale ed intellettuale, e per nulla su quello esistenziale. Di qui la prima, difficile sperimentazione di pratiche meditative nella scuola pubblica. Siamo ormai negli anni Ottanta, il decennio del dilagare del consumismo, del cattivo gusto televisivo, della rincorsa al denaro ed al successo. Le resistenze non sono poche, ma la determinazione di Giacomin ed il sostegno di burocrati sensibili ed aperti consentono di portare avanti la sperimentazione per cinque anni. Nasce così il Progetto Alice, i cui primi risultati sono assolutamente incoraggianti: gli studenti maturano una maggiore consapevolezza ed una migliore capacità di attenzione, che influiscono positivamente sul profitto. Ma l’Italia non è il paese più adatto per portare avanti una sperimentazione simile. Chiesto il pensionamento nel ‘91, Giacomin si mette alla ricerca di un paese in cui creare una scuola pensata secondo la concezione pedagogica che è ormai venuta maturando. Lo trova in India, dove nel 1994 inaugura la Universal Education School, che oggi è una istituzione scolastica che va dalla scuola materna fino all’università, con un corso di pedagogia. Altre sedi sono state aperte in diversi stati indiani, ed insegnanti formati sul metodo Alice lo hanno esportato in tutto il mondo.

Quella di Giacomin è una pedagogia della felicità. Nella società capitalistica, la felicità è stata soppiantata dal benessere: è convinzione diffusa che per essere felici sia necessario possedere molte cose, soddisfare i propri bisogni necessari e non necessari, acquisire uno status sociale. Tutte cose, cioè, che vanno nella direzione della crescita dell’ego. Attraverso la sua ricerca spirituale Giacomin giunge a rovesciare questa visione del mondo. Si è felici non se si accresce il proprio ego, ma se al contrario lo si apre ad altro. Il soggetto che si contrappone all’altro (all’altro essere umano, agli animali, alla natura), il soggetto in competizione del capitalismo, il soggetto di dominio è necessariamente un soggetto infelice. La dimensione propria della felicità è la dimensione transpersonale.

Il percorso che conduce l’ego oltre sé stesso è simboleggiato dai miti di molte religioni, mentre alla coscienza dell’uomo e della donna occidentali, che credono di essersi emancipati dalla religione e dal mito, tutto ciò sembra appartenere a ciò che con disprezzo squalificano come misticismo. In realtà è la stessa scienza che mostra l’insostenibilità tanto della visione corrente del mondo (fisica quantistica) quanto della percezione corrente del soggetto (neuroscienze). A ragione dunque Giacomin afferma che non si tratta di religione («io non parlo di religione, ma di conoscenza»: p. 80). È un discorso che attraversa e mette in dialogo le religioni, i miti, la scienza; è una pedagogia transpersonale che è anche interculturale e interdisciplinare. E, inevitabilmente, ha un risvolto politico ed economico.

Impegnata nel movimento per la Decrescita Felice, l’autrice di questo libro sottolinea il rapporto tra un’educazione transpersonale ed una politica-economia che superi il modello capitalistico. Il sovrano del Bhutan, ricorda, ha creato nel 1972 il concetto di Felicità Nazionale Complessiva, contrapposta al Prodotto Interno Lordo, ispirando ad essa le politiche del suo governo. Nel 2009 si è tenuto nel paese un grande congresso per gettare le basi del nuovo sistema educativo nazionale. Tra i venticinque esperti mondiali invitati l’unico europeo è stato Valentino Giacomin. Una dimostrazione del riconoscimento che la pedagogia di Giacomin ottiene nel mondo, ovunque non costituiscano un dogma i modelli pedagogico-economici occidentali; un riconoscimento confermato anche dall’apprezzamento del Dalai Lama, sostenitore dell’Alice Project ed autore della prefazione a questo libro (tratta da un discorso tenuto alla Universal Education School).

L’autrice di questo libro non è una pedagogista accademica: anche per questo, forse, riesce a restituire al lettore con freschezza il messaggio di Giacomin. Si spera che sia l’inizio di una (ri)scoperta del suo lavoro, che favorisca la circolazione delle sue opere e la sperimentazione del suo metodo, anche se permangono nel nostro paese ‒ e forse si sono anche aggravati con gli anni ‒ tutti quegli ostacoli ed impedimenti culturali e burocratici che hanno indotto Giacomin ad andare a sperimentare il suo metodo altrove. Una sperimentazione che va nella direzione del lavoro di Giacomin, anche se si è sviluppata autonomamente, è quella di Stefano Viviani, documentata nel libro L’intelligenza inattesa. Come si legge nei ringraziamenti, il libro «è ispirato all’opera di Roberto Assagioli, fondatore della psicosintesi, delle cui intuizioni in campo pedagogico intende essere una ripresa e uno dei possibili sviluppi». Assagioli non ha mai sviluppato in modo completo le sue idee in campo educativo, ma tutta la psicosintesi può essere interpretata in chiave pedagogica, indicando un percorso di autoeducazione e realizzazione interiore. L’esperienza che Viviani documenta nel suo libro non costuituisce tuttavia la fredda applicazione di una teoria. Dalla psicosintesi l’autore ha imparato l’importanza dell’interiorità, ed è questo il centro della sua sperimentazione. Come Giacomin, Viviani crea nell’aula scolastica uno spazio per l’interiorità, seguendo quella che chiama «pedagogia del riconoscimento interiore» (p. 31). All’inizio ci sono semplici esercizi di rilassamento, ad occhi chiusi. Ma quella che Viviani propone non è una meditazione individuale, bensì il confronto in aula su temi esistenziali. A scuola gli studenti raramente hanno la possibilità di parlare, di confrontarsi su questioni che pure sono essenziali per la loro crescita. Cos’è, ad esempio, la felicità? Studieranno il tema in Aristotele, e ripeteranno le sue conclusioni all’interrogazione; nella migliore delle ipotesi saranno invitati anche dal docente a dire cosa ne pensano delle conclusioni di Aristotele: ma cosa diversa è discutere insieme liberamente, senza riferimenti a dottrine o teorie studiare, bensì partendo dalla propria esperienza ed avviando, attraverso la riflessione di gruppo, la ricerca individuale. Il libro di Viviani è, per gran parte, la trascrizione di queste discussioni di classe (ma in questo caso sarebbe opportuno parlare, più che di classi, di vere comunità di ricerca) sui temi della felicità, della giustizia, dell’identità e dell’alterità, eccetera. Colpiscono la maturità, la serietà, la profondità degli interventi dei ragazzi. Non bisogna sorprendersene. Chiunque abbia provato a mettere degli studenti in dialogo, può verificare che ciò fa emergere in loro potenzialità inespresse: e spesso sono proprio quelli che normalmente sembrano disinteressati, indifferenti alle lezioni ordinarie, a dare il contributo maggiore.

Viviani conclude il suo libro con un «Piccolo decalogo pedagogico» pieno di buon senso: fermarsi, ascoltare e guardare i ragazzi, creare uno spazio per l’interiorità, lavorare su sé stessi, incarnare le qualità che si desidera sviluppare negli studenti, evitare giudizi negativi e svilenti, guidare al riconoscimento interiore, accendere la passione, procedere con lentezza ed attendere, non perseguire alcuno scopo. È quest’ultimo punto che mostra il carattere quietamente rivoluzionario di un simile approccio. «L’esperienza descritta in queste pagine ‒ scrive ‒ dimostra che lo sviluppo di quelle abilità e competenze che tanto ossessionano l’odierna didattica per obiettivi si produce in modo naturale occupandosi di tutt’altro. Se questo è vero, abilità e competenze dovrebbero essere concepite non tanto come obiettivi ma come conseguenze, conseguenze di qualcos’altro. Questo “qualcos’altro” è lo sviluppo di quella dimensione interiore, che sola può garantire frutti autentici e duraturi» (p. 106). Il problema (e la ragione per cui un approccio pedagogico simile, per quanto conduca a risultati positivi oggettivamente misurabili, difficilmente avrà successo) è che questo «qualcos’altro» non è compatibile con gli obiettivi occulti di una didattica per competenze, che mira ad avere lavoratori formati in modo capillare in base alle esigenze del mercato, e non persone dotate di interiorità, di riflessività, di capacità di dialogo autentico.

Antonio Vigilante vive a Siena, dove insegna psicologia e scienze umane in un istituto professionale. Si occupa di teoria e storia della nonviolenza, di pedagogia e di filosofia interculturale. Il suo ultimo libro è: L’educazione è pace (Edizioni del Rosone, Foggia 2014). Possiede un blog personale all’indirizzo: http://antoniovigilante.blogspot.it

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